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Immagine del redattoreRamon Testa

Il qigonghista occidentale

Alcune riflessioni sul percorso dell'aspirante stregone di qigong in Occidente



Capita che ogni qualvolta mi venga chiesto di parlare di qigong da chi vuole iniziare un percorso di studio o più semplicemente è incuriosito da questa parola esotica, mi ritrovi spesso a non avere molte parole per discorrerne in modo appropriato. La difficoltà non è solo data dal riuscire a trasmettere a chi non ne abbia mai fatto esperienza, una sensazione nuova che va oltre le sensazioni dei cinque organi di senso, ma di far capire che il qigong è qualcosa che non ha omologhi nella nostra cultura.


Il modo in cui di solito questo problema viene affrontato dai testi divulgativi sul qigong è abbastanza insoddisfacente. A una prima semplice descrizione di cosa sia il qigong viene poi aggiunta una sequela di informazioni riguardanti la teoria dei meridiani, la teoria dei cinque movimenti nonché prove scientifiche della medicina moderna sull'esistenza del qi.

Tutte queste informazioni anche se esatte non fanno però mai i conti con il repertorio culturale di chi si cimenta con gli esercizi di qigong. Questo repertorio culturale è un velo che separa dall'esperienza così come era stata pensata nel luogo e nel momento in cui è nata.

Un cinese, per non dire tutti gli asiatici, hanno gli strumenti culturali per comprendere cosa sia il qigong e cosa poterne ricavare. Se un asiatico si avvicina al qigong riesce a mettere nella giusta prospettiva le istruzioni che gli vengono date e lo scopo di queste. E' un po' come dire che un europeo che si iscrive a un corso di tango sa cosa sta andando a fare (senza saperlo realmente, ma perché lo sa dalla tv, dagli amici, da parenti o perché ha fatto un viaggio in Argentina) e che tipo di istruzioni aspettarsi dall'insegnante (perché sa quali sono gli scopi di un ballerino di tango professionista o dilettante). Sa inoltre quale tipo di atteggiamento l'insegnante avrà nei suoi confronti e sarebbe pronto a cambiare istruttore qualora questo avesse un comportamento non attinente al suo ruolo.


Tranne rarissime situazioni dove chi si iscrive a un corso di qigong lo fa per guarire da una malattia, negli altri casi lo si fa come per un qualsiasi altro hobby. Osservazione che è facile riportare se si socializza a un qualsiasi evento mondano: “Quest'anno ho iniziato a fare pilates reformer”. “Io invece da settembre pratico il qigong di stile Wudang”.

Forse il tutto è dovuto dal condizionamento culturale di ciò che per un occidentale rappresenta il movimento corporeo. L'etimo di sport in fondo vuol dire anche “distrarre, passare il tempo”. Trasporre qualsiasi tipo di pratica da una cultura a un'altra porta inevitabilmente qualche tipo di strascico. Questo mi fa tornare alla mente il ricordo di un gruppo di ballerini di liscio che si ritrovava sulle larghe mura di cinta della città di Xi'an in Cina. L'alta precisione dei movimenti e la leggerezza dei passi di questi ballerini aveva però la freddezza del movimento ripetitivo della danzatrice dei carillon ottocenteschi. I loro movimenti erano perfettamente eseguiti, ma i visi e gli sguardi della coppia di ballerini rimaneva distante, algido come se entrambi non stessero realmente ballando insieme, ma fossero singolarmente impegnati nell'esecuzione di due diversi movimenti.

Dal mio punto di vista, forse occidentale anche, era lampante che in quel movimento mancasse qualcosa, la capacità a stare insieme o il trasporto dato dalla musica.


Il qigong così come di solito riportano i testi divulgativi, è una pratica che nella sua struttura di base combina diversi aspetti dell'esperienza umana: il movimento, una particolare attività cognitiva e la respirazione. A un certo punto della pratica inoltre le sensazioni di mente e corpo travalicano l'esperienza comune e entrano in contatto con una sfera tutta particolare.

Così quando si inizia la pratica spesso ci si chiede se ciò che si esegue sia un esercizio fisico oppure se si stia meditando, se lo scopo di quello che si fa sia rafforzare la mente o il corpo, se si debba concentrare l'attenzione sulla percezione del qi e se veramente questo qi esista.

Uno degli aspetti che riceve di solito più' importanza di altri è l'esecuzione dei movimenti. Nella pratica il rilassamento non è compreso adeguatamente e il movimento ha invece un'attenzione forse eccessiva.


Un altro aspetto è il relegare la pratica a un momento preciso della giornata e di escluderla da tutto il resto. Come se stare in salute e in armonia fosse solamente il compito di una sola parte del nostro tempo.

Un altro aspetto taciuto (forse perché lo si sottovaluta) è il fatto che il qigong è una via “cinese”, quindi una via che potremmo definire “via del silenzio”. La ricerca del Dao avviene dalla “quiete”. Chi si incammina su questo percorso deve sapere che questa via procede nel silenzio e si discosta da un tratto tipico europeo in cui ci si confronta in modo più o meno aperto con gli altri.

Questa caratteristica di quiete può tradursi nel suo opposto in un altro fenomeno tipico del praticante di cose cinesi in occidente: la freddezza, l'eccessivo distacco. Chi è cresciuto in una cultura in cui adoperarsi per il bene del prossimo è un caposaldo, non può non avere un moto, seppur piccolo e incosciente, di rigetto interiore per una pratica che sembra una esaltazione di sé stessi, un auto-compiacimento per il proprio esclusivo bene. Anche qui bisogna capire che la via della quiete è appunto una via e non il fine e che questo tipo di percorso non è né giusto né sbagliato. La domanda da porsi è casomai se conduca da qualche parte.

Siamo quindi sicuri cosa aspettarci da un corso di qigong e dal suo insegnante? Quali cose siamo disposti ad accettare e quali rigetteremmo?



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