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Non ci sono scuse

Immagine del redattore: Ramon TestaRamon Testa

Una riflessione sulla disciplina nella pratica del qigong di R. Testa




La settimana scorsa scrivo di getto il testo qui sotto per chiarire a me stesso alcune implicazioni della mancanza di disciplina. Poi, qualche giorno dopo, lo rileggo e lo trovo un po' eccessivo. Non voglio fare la parte del bacchettone o dell'integralista e così tentennto e lo lascio nelle bozze. Ora però decido di pubblicarlo ugualmente un po' perché non ho più voglia di modificarlo e poi anche per vedere l'effetto che fa mettere in contrapposizione familia/relazioni personali e qigong.


Quando troviamo scuse per non essere disciplinati nella pratica del qigong come nella pratica di qualsiasi altra cosa, su un piano per così dire mondano, queste scuse sono sempre ben motivate e sensate. La pratica può essere posticipata, ridotta, procrastinata per motivi considerati "molto seri" oppure anche veniali.

Ci scusiamo per dedicare tempo ai nostri figli, al coniuge, ai genitori. Oppure ci scusiamo perché vogliamo dedicare del tempo a noi stessi concedendoci una cena romantica o con amici, un weekend fuori porta, o semplicemente una passeggiata nel luogo che amiamo. Altre volte ci scusiamo con frasi del tipo: “sono troppo stanco”, “ho mal di testa”, “mi fa male il ginocchio”, etc. Infine ci sono motivazioni più banali, ma spessissimo presenti, come "non mi va", "mi annoio", "preferisco fare altro". Sul piano mondano tutte queste scuse sono "ammissibili" e sensate. Ogni aspetto della nostra vita merita attenzione, ma cosa ci perdiamo ogni volta che la pratica viene messa in secondo, in terzo o quarto piano? In realtà mettiamo in secondo, terzo o quarto piano noi stessi. La pratica siamo noi. L'essere disciplinati è essere in contatto con noi stessi nel modo più profondo.

E quali sono i meccanismi che agiscono dietro queste scuse ben motivate che attuano un vero e proprio autosabotaggio?


Quando, in modo sistematico, rinunciamo alla pratica per dedicare tempo ai figli, al coniuge o ai genitori, sembriamo compiere un atto altruistico, ma in realtà, il più delle volte, stiamo probabilmente fuggendo da un incontro più profondo con noi stessi. La vera cura verso gli altri deriva proprio dalla nostra capacità di essere integri, centrati e armonici, che si ottiene attraverso una pratica disciplinata. E non si tratta di fare una scelta fra una cosa e l’altra, ma di capire i meccanismi che ci fanno compiere quella scelta o che alimentano il senso di colpa una volta fatta una certa scelta.


Le occasioni di "coccolarsi", una cena romantica, un weekend, una passeggiata, vengono spesso scelte come alternative alla pratica. Questi momenti, pur legittimi, diventano un surrogato della pratica, un modo per evitare il lavoro che sappiamo essere necessario (lo sappiamo, vero?!).


Stanchezza, mal di testa, dolori articolari sono pretesti paradossali, proprio quando il qigong potrebbe essere lo strumento curativo. Qui emerge una resistenza profonda al cambiamento, un rifugiarsi nell'abitudine del disagio piuttosto che nel percorso di trasformazione.


E infine: "non mi va", "mi annoio" sono espressioni che rivelano un attaccamento al piacere immediato e una difficoltà a comprendere i benefici a lungo termine della pratica.

Una volta che in modo realistico abbiamo compreso come organizzare le faccende quotidiane, dovremmo fare ogni sforzo per essere disciplinati nella pratica, sia essa di 3 ore, 30 minuti o 3 minuti. Questa disciplina ci permette di tornare a noi stessi, al nostro centro e questo è un atto caritatevole nei nostri confronti e nei confronti degli altri perché ci mette in grado di comprendere i nostri bisogni, ma soprattutto comprendere la verità di noi stessi. E questo si riflette nel poter comprendere i bisogni degli altri e la verità degli altri.

 

Quando riusciamo a essere disciplinati, anche per un brevissimo momento, stiamo compiendo un atto rivoluzionario di autodeterminazione.

Tornare al nostro centro è come riscoprire una mappa interiore che avevamo dimenticato, ritrovando i sentieri della nostra essenza più autentica. In questo spazio di connessione, i nostri bisogni emergono con chiarezza, sottraendosi alle nebbie dell'abitudine e della distrazione. La disciplina diventa allora un ponte: dal nostro mondo interno al mondo esterno. Comprendere noi stessi non è più allora un atto narcisistico, ma il requisito per una vera comprensione degli altri. Più siamo capaci di ascoltare la nostra verità, più diventiamo ricettivi alle verità altrui. Non si tratta di giudicare, ma di accogliere: prima se stessi, poi gli altri.


Questa disciplina da imposizione diventa quindi un atto di generosità silenziosa. Non produce risultati immediati e spettacolari, ma genera una trasformazione sotterranea, che si irradia piano piano nei nostri rapporti. È un momento in cui ci prendiamo cura di noi stessi che va ben oltre la singola sessione di pratica.

Essere disciplinati, in fondo, significa fidarsi di sé stessi.

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